C’era una volta una giovane donna che viveva in un quartiere gradevole del ceto medio con il figlio di otto anni e la madre.
Vicino a questo gradevole quartiere c’era una piccola favela, piena di bambini poveri. La domenica, alcuni di questi bambini andavano a bussare alla porta di casa della giovane madre verso l’ora di pranzo. Lei, che era una donna molto buona, aveva preso l’abitudine di dividere con i bambini quel che aveva preparato per il pranzo della sua famiglia. E così tutti passavano una domenica migliore.
Un giorno preparò una zuppa di carne e verdure. Quando i bambini bussarono alla porta, lei gliela servì in bicchieri di plastica. Ma, conoscendo le abitudini dei bambini, li ammonì: «Mi raccomando, si finisce tutto, la carne, la verdura e il brodo». I bambini le giurarono che avrebbero mangiato tutto. Scettica, la madre li seguì da lontano. Come sospettava, non appena ebbero girato l’angolo, i bambini mangiarono la carne e buttarono il brodo, la verdura e i bicchieri di plastica. A quella vista, la donna s’indignò e, avvicinandosi, fece loro una bella ramanzina, dicendo che stavano buttando ciò che Dio gli dava da mangiare. Ancora amareggiata arrivò a casa e raccontò alla madre e al figlio ciò che le era accaduto. La saggia nonna del bambino, però, osservò che forse la figlia aveva reagito male. «Renditi conto», disse l’anziana signora, «sono solo dei bambini. Ma adesso, dopo la tua sgridata, è facile che non tornino mai più». Contrariata, la giovane riconobbe che forse aveva esagerato e si intristì. Visto lo sconcerto della madre, il figlio di otto anni tentò di consolarla e disse: «Non essere triste, mamma! Vedrai che di poveri ce ne procuriamo altri!».
Questa storia è accaduta davvero, a una mia amica, verso la metà degli anni Ottanta del secolo scorso, nella città di Porto Alegre, Brasile. La reazione del bambino può essere vista come innocente e ingenua. Eppure essa nasconde la paura – tendente al panico – che sperimentiamo di fronte ai cambiamenti nel nostro quotidiano, quella che crea un vuoto nel tracciato abituale, un buco da riempire. La reazione più immediata è tentare di colmare il vuoto con qualcosa di simile a ciò che manca, oppure provare a far tornare le cose come erano prima, per quanto questo implichi l’illusoria elaborazione di un disegno sostitutivo della difficile, dolorosa e minacciosa percezione della nuova realtà.
In un certo senso, è quello che succede a tutti noi, nel bene e nel male, quando contempliamo il termine «Brasile». Ciò che vediamo oggi, in realtà, è un insieme di immagini confuse e sovrapposte, mutevoli, che possono farci credere che le nostre retine si siano staccate o che abbiamo indossato gli occhiali sbagliati, lasciandoci con una sensazione generalizzata di incertezza. Improvvisamente, al cospetto della parola «Brasile» vediamo un misto di vuoto e immagini sfuocate di molti «Brasili» possibili, dove prima vedevamo certezza. Perché il Brasile – intendiamo ora il paese reale – ha cambiato posto nell’ordine delle cose. E la percezione di questo slittamento provoca una sensazione generalizzata di precarietà, che ha come effetto immediato il tentativo, come in un gioco di magia, di far tornare l’immagine come era prima. Questo succede sia a chi guarda il Brasile da fuori sia a chi lo guarda da dentro, ossia agli stessi brasiliani.
In un recente articolo di analisi comparativa tra le economie del Messico e del Brasile nel periodo tra il 2003 e il 2012, il professor José Fiori dell’Università Federale di Rio de Janeiro ci dà un’idea della portata dei cambiamenti avvenuti da noi negli ultimi anni. Oltre alla portata, il professore ci mostra la rapidità con cui questi cambiamenti si sono verificati, comparando il ritmo brasiliano con quello messicano e soprattutto con la recessione mondiale prodotta dalla crisi finanziaria a partire dal 2007-8. Nel periodo in analisi, scrive il professore, la crescita media annua del pil brasiliano è stata del 4,21%, quella del pil messicano del 2,9%. Se il 4,21% del Brasile sembra poco rispetto alle percentuali astronomiche dell’incremento cinese, esso cresce di valore paragonato a molti paesi europei, che hanno visto la crescita dei loro pil annientata dalla crisi del debito sovrano e dai piani di «austerità» che si sono autoimposti o hanno dovuto mandar giù a forza. Sempre in quel decennio, l’economia brasiliana è cresciuta del 42,17%.
Le esportazioni hanno avuto un incremento medio annuale del 6,59%, segnando in totale un aumento del 65,95%, mentre le importazioni sono cresciute del 173,2%, a un tasso annuale del 17,33%. Alle percentuali riportate dal professore è necessario aggiungere un’osservazione: il commercio estero brasiliano si è enormemente diversificato. Il nostro partner principale è oggi la Cina, non più gli Stati Uniti. I contatti commerciali e diplomatici con il cosiddetto Sud del mondo si sono moltiplicati e oggi il Brasile occupa un posto importante nel G-20, facendosi non di rado portavoce dei paesi emergenti.
Tali numeri dell’economia si riflettono anche sul piano sociale. Per quanto rimanga un paese con grandi disuguaglianze, il reddito pro capite brasiliano è cresciuto del 28,4% e l’incidenza del lavoro salariato – grazie a una politica di incremento del salario minimo nazionale – è arrivata al 45%, mentre in Messico è rimasta al 29%. In un mondo che negli ultimi anni ha perso circa 60 milioni di posti di lavoro, il Brasile ha creato 16 milioni di nuovi lavori regolari, cioè con contratto regolare, il che garantisce un maggiore rispetto dei diritti dei lavoratori. La povertà assoluta in Brasile si è ridotta al 15,9%, mentre in Messico è arrivata al 51,3%. Si potrebbe affermare, con una certa ironia, che non si è mai lavorato tanto in Brasile e non si è mai guadagnato tanto come adesso, per la disperazione degli economisti ortodossi, che vedono in questi rialzi salariali e nella bassa disoccupazione (intorno al 5-6%) fattori che aumentano il «costo Brasile», rendendo il nostro paese meno competitivo e meno attraente. Eppure è vero il contrario: nel 2002 gli investimenti esteri in Brasile sono stati di 16.590 milioni di dollari; nel 2012 di 76.111 milioni. Dopo aver proposto qualche altro paragone con il Messico, l’articolo conclude che nel 2013 l’economia brasiliana è cresciuta del 2,3% (uno dei maggiori tassi di crescita tra le grandi economie mondiali), mentre l’economia messicana è cresciuta dell’1,1%.
L’insistenza (e la pertinenza) del paragone con il Messico deriva dall’obiettivo di smontare la logica degli attacchi che periodicamente vengono sferrati dall’Economist e dal Financial Times contro la politica degli ultimi tre governi brasiliani, descritta come «interventista». Quelle testate sono sempre sistematicamente intente a celebrare il «liberalismo» messicano e la sua adesione al Nafta e alla neonata Alleanza del Pacifico, che tenta di limitare l’espansione del Mercosur. Ai dati statistici menzionati dal professore vale la pena unire qualche osservazione empirica, da viaggiatore brasiliano residente all’estero. Per prima cosa, non si sono mai visti tanti brasiliani in viaggio per tutti gli angoli del mondo. In secondo luogo, non si sono mai visti tanti brasiliani che viaggiano nel loro stesso paese come oggi, e in aereo, cosa che fino a cinquant’anni fa era esclusiva delle persone benestanti. Recentemente, mentre viaggiavo per il Sud-Est e il Sud del paese, mi ha colpito la quantità di annunci diffusi ovunque – dai piccoli negozi alle grandi catene, ai supermercati – dove si offrivano nuove opportunità di impiego. A tutto questo si somma il numero degli apprendisti incontrati, prova evidente che l’offerta dei posti di lavoro è in continuo aumento. Un’altra osservazione empirica: il potere crescente d’acquisto della popolazione ha incrementato consistentemente tutte le forme di consumo, di alimenti e della cosiddetta «linha branca» (elettrodomestici), fino all’automobile. Non si è mai vista una circolazione così intensa di veicoli nelle città brasiliane, dalle megalopoli come San Paolo, Rio de Janeiro, Belo Horizonte, Fortaleza eccetera fino alle piccole e medie città dell’interno, senza parlare dell’estensione della rete stradale.
Per completare questo quadro piuttosto febbrile, l’avvicinarsi di eventi come i Mondiali di calcio in dodici città brasiliane nel 2014 e le Olimpiadi di Rio de Janeiro nel 2016 ha trasformato queste città in un gigantesco cantiere – producendo occasioni di lavoro autonomo o dipendente – ma allo stesso tempo contribuendo a congestionarne ulteriormente il traffico.
Vi è una persistente illusione che attraversa in modo frequente e insistente tutte le considerazioni sulla storia brasiliana antica e recente: è il luogo comune secondo cui il popolo brasiliano è docile e passivo, sicché le trasformazioni nella società si produrrebbero sempre in modo «lento e graduale», senza sbalzi o sussulti violenti, per quanto le metropoli brasiliane presentino alti indici di insicurezza e violenza – anche da parte delle forze dell’ordine – e abbiano visto più decenni di dittature e governi oligarchici che di democrazia formale, se ci limitiamo al solo periodo repubblicano. Un esempio classico è la lettura tradizionale che si fa della proclamazione della Repubblica come golpe pacifico (1889), vista la mancata resistenza della famiglia reale, accettata dalla popolazione con indifferenza e quasi cordialità. Questa visione del cambio di regime storicamente tanto idilliaca quanto illusoria venne consacrata dalle interpretazioni di sinistra che vi vedevano uno dei tanti «mutamenti perché tutto rimanesse com’era», visto che il potere non passò a una diversa classe sociale. Di fatto non passò a un’altra classe ma passò in altre mani, sciogliendo antichi giuramenti di lealtà e costruendone di nuovi. Questo processo nei quasi dieci anni seguenti portò a tre delle più sanguinarie guerre civili che la storia brasiliana abbia mai registrato: la rivoluzione federalista (1893-95) nel Rio Grande do Sul, la rivolta dell’Armata a Rio de Janeiro (1894) e la guerra di Canudos nel sertão di Bahia, che raggiunse l’apice sul finire del 1897.
Queste stesse illusioni dispersive produssero l’idea, alimentata sia a destra sia a sinistra, che i processi di cambiamento economico, sociale e culturale che hanno visto protagonista il Brasile negli ultimi anni potrebbero essere vissuti anche ora senza sbalzi e sussulti. A destra (e in alcuni settori dell’estrema sinistra) vigeva l’idea che i programmi sociali del governo offuscassero la percezione delle «masse». Tra coloro che appoggiavano il governo – e all’interno del governo stesso – dominava l’idea che i progressi sociali sarebbero stati accettati pacificamente sia dai beneficiari diretti sia da quelli indiretti, ossia l’insieme della società. Le illusioni sono andate in frantumi nel giugno del 2013, quando tutti, a destra, al centro e a sinistra, sono stati sorpresi dalle manifestazioni che hanno scosso il panorama politico, mostrando che vi era insofferenza là dove prima si vedeva solo il fluire calmo di un fiume gigantesco ma tranquillo.
Non a caso la miccia delle manifestazioni si può individuare nel trasporto pubblico delle grandi città. È bene segnalare che il trasporto pubblico, relativamente agli autobus, è pubblico solo per quel che riguarda gli utenti, visto che è nettamente privatizzato in tutto il paese. Mai prima d’ora, in Brasile, tanta gente ha avuto bisogno di trasporto pubblico allo stesso tempo. Un paese storicamente campione delle disuguaglianze sociali non è stato fatto perché tanta gente lavorasse tanto, studiasse tanto, e dunque si muovesse tanto simultaneamente. Ciò che già era mediocre e precario (il trasporto pubblico) è divenuto ancor peggiore e inadeguato. Inoltre, in un paese che a partire dalla dittatura militare instaurata nel 1964 ha favorito il trasporto privato e motorizzato a scapito di quello pubblico e della rete ferroviaria, oltre ad aver disarticolato il sistema di tram un po’ ovunque, le città non sono state pianificate e costruite perché tanta gente possedesse un’auto allo stesso tempo. Così come gli aeroporti brasiliani non sono stati progettati per fare volare tante persone. Per questo, all’immaginario del miglioramento del benessere collettivo (descrizione di sinistra) o dell’aumento sfrenato dei consumi sregolati a tutti i livelli (descrizione di destra) si è sovrapposto sempre più quello del caos urbano e della mancanza di servizi adeguati, cui si è sommato l’aumento del prezzo dei biglietti. Se la qualità del trasporto pubblico è stata la miccia, la scintilla è stata l’aumento del prezzo dei trasporti (a San Paolo, da 3,00 a 3,20 reais). Questa scintilla non è stata una novità: in passato si erano già verificati movimenti simili, dai tumulti cittadini come quelli di San Paolo, Rio de Janeiro e altri negli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso, fino ai moti più recenti, in questi anni, in città come Salvador, Florianópolis, o ancora nel 2013 a Porto Alegre.
In tutto il Brasile, a giugno 2013, le manifestazioni sono nate dal Movimento Passe Livre, che da anni lotta per la gratuità del trasporto pubblico. Nel caso di Rio de Janeiro sono intervenuti anche movimenti di protesta contro i Mondiali e le Olimpiadi.
Rapidamente, a partire da metà giugno, alle ragioni iniziali se ne sono sommate altre. È emersa un’insoddisfazione generalizzata nei confronti del servizio pubblico nel suo complesso, soprattutto nel campo dell’istruzione – dove la progressiva apertura non è stata accompagnata da un potenziamento della qualità – e della sanità, dove, se il sistema pubblico di fatto è universalizzato e unificato, non sempre è rapido o fornito di attrezzature adeguate. Sono affiorate anche problematiche più sottili, come quelle rimarcate dall’economista dell’Università statale di Campinas, Marcio Pochman, per cui se è vero che è aumentato il numero di lavoratori nel paese, non si può dire lo stesso del numero degli iscritti ai sindacati. I dati mostrano uno iato tra la popolazione che lavora in tutti i settori, dall’istruzione all’industria, e i cosiddetti spazi di rappresentatività – oltre alla tradizionale distanza, per esempio, degli apparati legislativi (dai Consigli comunali al Congresso nazionale) e del sistema giudiziario.
Si è imposto anche il tema della lotta alla corruzione, evidenziato a livello nazionale, in quel momento, dai media tradizionali e conservatori. I quali si sono lanciati in una campagna contro i politici di sinistra che guidano dal 2003 il governo federale, coinvolti nella «Campanha do Mensalão», un presunto sistema di tangenti a membri del Congresso nazionale in cambio di voti.
Insomma, come dicono gli inglesi, «the plot thickened», che si può tradurre in gergo politico corrente brasiliano con «il brodo si è addensato». A questa ricetta già di per sé esplosiva si è aggiunto un altro ingrediente incendiario: la tradizionale violenza della polizia militare (statale) nella repressione delle manifestazioni di strada, eredità dei tempi della dittatura militare. La violenza è esplosa soprattutto a San Paolo e a Rio de Janeiro, ma non ha risparmiato altre città.
Per caso mi trovavo a San Paolo quando sono cominciate le manifestazioni. Si capiva immediatamente che vi erano molte manifestazioni dentro a ogni singola manifestazione. Diversamente dalle tradizionali proteste del secolo scorso, non vi era una leadership unitaria, ma tante leadership diverse, con obiettivi a volte in conflitto tra loro. C’erano le proteste contro l’aumento del costo dei biglietti (che alla fine a San Paolo è stato annullato dalla prefettura e dal governo dello Stato) e contro la scarsa qualità dei trasporti e dei servizi pubblici. Ad esse si sommavano le proteste contro i politici e i partiti in generale; proteste contro i mezzi di comunicazione; proteste contro tutti i governi e le amministrazioni. C’erano proteste semplicemente contro i Mondiali in Brasile. Le convocazioni, fatte tramite Facebook e Twitter, non fissavano linee consensuali. Spesso le manifestazioni davano luogo a diverse marce, una verso il centro della città, un’altra diretta al Palácio dos Bandeirantes, sede del governo statale, altre ancora orientate verso la prefettura.
Questo clima, che molti definivano «anarchico», caratterizzava anche le manifestazioni in altre città. Da subito le rappresaglie da parte della polizia sono state brutali, eccitando nuove proteste e manifestazioni. Poi sono entrati in scena alcuni noti provocatori, istigando agli attacchi contro le banche, le catene di fast-food, gli edifici pubblici. I manifestanti di estrema destra si univano a quelli di estrema sinistra nella protesta contro il governo federale, contro il Partido dos Trabalhadores. È così spuntato un nuovo tipo di manifestante: quello inquadrato nel cosiddetto «black bloc», vagamente ispirato a movimenti quali quelli degli autonomi tedeschi, vestiti di nero, con maschere o fazzoletti a coprire il volto. Costoro cercavano lo scontro con i poliziotti e saccheggiavano qualsiasi cosa gli si parasse davanti. Inizialmente alcuni partiti di estrema sinistra hanno tentato di avvicinarglisi, di appoggiarli, senza successo. I «black bloc» si giustificano dicendo che non fanno altro che rispondere alla violenza della polizia. Tuttavia, a volte, sono loro stessi a provocarla.
In quel mese di giugno che si è esteso fino a luglio inoltrato, il numero dei manifestanti è stato incredibile, rimanendo sempre nell’ordine delle decine di migliaia. A un certo momento sono entrati in scena anche i sindacati, con le loro manifestazioni, più composte, ma comunque numerose, quasi sempre osteggiate o semplicemente disprezzate dai media tradizionali e conservatori.
Il quadro mediatico brasiliano è molto complesso. La sua componente principale sono le imprese editoriali tradizionali, frequentemente dominate o originate da clan familiari, di spirito molto conservatore, paladine dei princìpi ortodossi e ultraliberali in materia di economia, ostili alla sinistra e in particolare all’attuale governo federale. Ma ci sono anche media alternativi, presenti soprattutto nella Rete, molto diffusi e militanti. Questo universo alternativo, erede della stampa d’opposizione dei tempi della dittatura militare, è molto frammentato, per quanto i suoi messaggi abbiano un impatto sorprendente. Al contrario, i media dell’area conservatrice, per quanto presentino differenze superficiali o di stile, sono solitamente univoci nella difesa dei propri interessi e si comportano come un vero e proprio partito d’opposizione.
La percezione dei media alternativi, fin dall’inizio delle manifestazioni, è stata piuttosto diversificata: si sono visti articoli e analisi che appoggiavano le rivendicazioni; altri, più scettici, sostenevano che queste venivano veicolate dalla destra; altri ancora ne criticavano lo stile apparentemente «disorganizzato» e «la mancanza di un obiettivo chiaro». Tra i media dei sindacati, che fanno parte di questo settore alternativo, è prevalso da subito l’appoggio alle rivendicazioni dei movimenti di protesta e l’appello al dialogo con i manifestanti.
I media tradizionali hanno avuto invece una reazione curiosa. Inizialmente, hanno espresso un dissenso univoco nei confronti dei manifestanti: erano degli «agitatori», «ostacolavano il traffico», dovevano essere trattati con rigore dalle forze dell’ordine. Poi, quando hanno iniziato a rendersi conto che i manifestanti si rivoltavano il quartier generale del Partido dos Trabalhadores di San Paolo, o attaccavano la sede del governo dello Stato di Rio de Janeiro e la prefettura dell’ex capitale federale, hanno cambiato tono. Hanno iniziato a parlare di «manifestazioni democratiche» (pur senza appoggiare alcun tipo di violenza) e a rivolgere elogi ai manifestanti. Alcuni commentatori più audaci sono arrivati a dichiarare che si trattava di una «rifondazione del paese», o che il «gigante» (il paese) alla fine «si era svegliato». C’è stato un chiaro tentativo di indirizzare i manifestanti contro i politici in generale, ma in particolar modo contro quelli di sinistra, accusati di essere incapaci e corrotti, o entrambe le cose.
Le autorità hanno reagito in modo molto differenziato. Il governatore del Rio Grande do Sul ha stabilito che fosse creato un pass libero speciale nel trasporto municipale per gli studenti che vivono in una città e devono frequentare l’università in un’altra. La prefettura e il governo dello Stato di San Paolo hanno abolito, con un po’ di riluttanza, l’aumento del prezzo dei biglietti. Reazioni simili si sono avute anche in altre città. Il governo federale ha risposto con la dichiarazione della presidente Dilma Rousseff che proponeva un dialogo su cinque punti principali, tra i quali compariva quello della mobilità urbana, oltre a sanità, istruzione, riforme politiche, responsabilità fiscale.
Da un certo punto in poi il Movimento Passe Livre, che aveva iniziato le manifestazioni, ha dichiarato che non concordava con le «manipolazioni» che ne venivano fatte e ha annunciato che non ne avrebbe sollecitate altre. Sono circolate accuse di «tradimento», di «svendita dei princìpi» in cambio dei venti centesimi cancellati dal prezzo del biglietto a San Paolo. Il fatto è che a poco a poco il movimento ha iniziato a raffreddarsi. Sono sopraggiunte le feste di Natale e le vacanze scolastiche, da dicembre a gennaio.
Nel 2014 ci sono stati tentativi di ripresa delle proteste, stavolta guidate in molti casi dal gruppo Não vai ter Copa (No alla Coppa del Mondo). Ma senza particolare successo. Il processo iniziato con le «giornate di giugno» è ben lungi dall’avere raggiunto i suoi obiettivi, qualunque sia l’angolo o la linea politica di interpretazione. Dopo i Mondiali inizierà la campagna elettorale per la presidenza, per il governo degli Stati e per i parlamenti statali e nazionale. Se queste manifestazioni avranno un impatto, e che tipo di impatto, in queste elezioni, è ancora da vedere. Di certo hanno contribuito a confondere le immagini dei molti Brasili cui si alludeva all’inizio di questo articolo. Sono una testimonianza del fatto che «il Brasile ha cambiato posto», ed è diventato un paese che, pur continuando a confrontarsi con problemi secolari di disuguaglianza, di certo non tornerà alla sua antica immagine segnata dalla miseria.
Il Brasile oggi è «altro»: il che genera anche incertezza, inquietudini e dubbi, in patria e nel mondo.